All’alba della riforma entrata in vigore il 1° gennaio del 2020, si sente ancora parlare dell’istituto della prescrizione, descritta come il vero male del sistema processuale penale ma difesa, a spada tratta, da innumerevoli giuristi italiani.
Nell’era digitale informarsi su un determinato argomento è diventato molto semplice ma quanti, estranei al diritto, si sono realmente chiesti: “Cos’è e come funziona l’istituto della prescrizione?”
La prescrizione del reato è regolata dall’art. 157 del Codice penale e prevede che, decorso un determinato lasso di tempo, il reato si estingua. In parole povere, lo Stato perde interesse ad accertare la responsabilità penale per fatti avvenuti troppo tempo addietro.
Per comprendere come realmente opera sono necessarie alcune nozioni di diritto penale che, solitamente, non si conoscono. Il legislatore ha diviso i reati in due tipi: delitti e contravvenzioni. I primi sono quelli più gravi, comunemente conosciuti (ad esempio furto, appropriazione indebita, lesioni, rapina, peculato, abuso d’ufficio etc) mentre i secondi sono considerati reati meno gravi e puniti con pene più blande (molestia o disturbo alle persone, incauto acquisto, omessa custodia di animali etc). Mentre le contravvenzioni si prescrivono in cinque anni, per i delitti il tempo di prescrizione è pari al massimo della pena edittale prevista per il singolo illecito, più un quarto (Esempio: la pena massima del reato di rapina è 10 anni per cui si prescriverà in 12 anni e mezzo). In ogni caso, un delitto non può prescriversi in meno di sette anni e mezzo. Ad esempio, anche se il furto semplice è punito con una pena massima di anni tre di reclusione, si prescriverà comunque passati sette anni e mezzo senza che si sia giunti ad una sentenza definitiva.
Conoscere queste elementari basi del diritto permette già di rendersi conto che deve trascorrere un lasso di tempo molto lungo affinché un delitto si prescriva. Inoltre, tutti quei reati che sono puniti con la pena dell’ergastolo (quindi gravissimi) sono imprescrittibili ovvero, a prescindere dal tempo trascorso, lo Stato non perde mai l’interesse a perseguire il colpevole.
Prima che si giunga ad una sentenza definitiva, è necessario che il caso affronti tutti e tre i gradi di giudizio (Tribunale, Corte d’appello e Cassazione) oppure che decorra inutilmente il termine necessario per impugnare la sentenza stessa. Ovviamente vi sono casi particolari e procedure speciali ma, avendo questo articolo lo scopo di spiegare al profano il funzionamento della prescrizione, non è necessario approfondire i tipi di procedimento e di impugnazione.
Prima della recente riforma, il reato si prescriveva nel caso in cui, trascorso il periodo necessario sopra illustrato, non si fosse giunti ad una sentenza definitiva. Oggi, invece, una volta emessa la sentenza di primo grado la prescrizione non può più operare per cui il reato diviene imprescrittibile. Partendo dal problema, ovvero la lunghezza dei processi, non si comprende quale sia lo scopo della riforma.
Problema: il processo dura troppo ed il reato si prescrive.
Soluzione: Aboliamo la prescrizione.
Un neanche troppo attento lettore si sarà subito reso conto che la soluzione prospettata non risolve il vero problema che non riguarda l’estinzione del reato bensì la durata eccessiva del processo. Di seguito alcune considerazioni che sfateranno molti luoghi comuni.
La prescrizione è l’unico istituto che impone alla Magistratura di emettere una sentenza in tempi ragionevoli. L’art. 111 della nostra Costituzione eleva a principio costituzionalmente garantito la “ragionevole durata del processo” ma non esiste, ad oggi, una norma che imponga all’Organo giudicante termine perentori nella gestione di un procedimento.
La prescrizione non riguarda soltanto i condannati in primo grado. Si pensi al caso in cui Tizio, accusato ingiustamente di un reato, venga assolto in primo grado e, avverso tale sentenza, il Pubblico Ministero proponga impugnazione. Con la previgente riforma Tizio aveva comunque diritto ad ottenere una sentenza definitiva che confermasse la sua assoluzione o lo condannasse in tempi ragionevoli perché, altrimenti, il reato si sarebbe comunque prescritto. Con l’attuale normativa, Tizio, nonostante sia stato assolto in primo grado, rischia di mantenere la qualità di “imputato” per un tempo indeterminato con tutte le problematiche che tale condizione comporta: nelle autocertificazioni dovrà segnalare che ha carichi pendenti, soffrirà di stati di ansia per l’indeterminatezza della sua posizione, dovrà contattare il proprio legale di fiducia per sapere l’andamento del procedimento (con aggravio di spese) etc.
Nonostante lo spauracchio della prescrizione, le Corti di appello hanno sempre fissato i procedimenti a due – tre anni dall’impugnazione della sentenza di primo grado. Oggi, non essendoci più tale possibilità, quanto tempo passerà prima che si tenga l’udienza di appello?
La prescrizione non è sinonimo di ingiustizia. Si sente spesso dire: “Non è giusto che chi ha commesso un reato rimanga impunito”. Personalmente, bisognerebbe aggiungere: “Non è giusto che chi ha commesso un reato in una determinata fase della sua vita riceva una condanna anche 10/15 anni dopo”. Si è abituati a considerare la commissione di un reato come un qualcosa che non riguardi la persona comune, rispettosa delle regole. Purtroppo, è una concezione sbagliata perché alcuni reati sono frutto di vite disagiate, di turbe giovanili, di particolari problemi sociali che, con il tempo, potrebbero risolversi ed evolvere. Non per niente la nostra Costituzione attribuisce alla pena una funzione tanto afflittiva quanto rieducativa proprio al fine di consentire il reinserimento in società di chi ha commesso errori nella propria vita. Non solo, non sono poche le persone cosiddette “comuni” che finiscono nella morsa della giustizia penale, magari a causa del lavoro che svolgono (un medico, un Pubblico Ufficiale, un datore di lavoro, un imprenditore etc), magari per negligenza o, semplicemente, per sfortuna ed errore. Di conseguenza, in tutti questi casi, è maggiormente necessario pretendere che il procedimento venga definito in tempi brevi e certi e ciò non si ottiene abolendo l’istituto della prescrizione.
La prescrizione non preclude alle vittime il risarcimento del danno. L’estinzione del reato per intervenuta prescrizione non equivale ad una pronuncia di innocenza dell’imputato. Per cui, la vittima che ha subito il danno ben potrà ottenere il risarcimento in sede civile.
La prescrizione non è un sotterfugio utilizzato dagli avvocati. Ogni qual volta il difensore di un imputato chiede il rinvio dell’udienza per un problema o proprio o del suo assistito, la legge stabilisce che la prescrizione si sospenda. Ovvero, se a causa di quel legittimo impedimento, il processo dovesse essere rinviato ad altra data, il tempo intercorrente fra l’udienza rinviata e la nuova non sarà contato ai fini della prescrizione. Mentre il rinvio chiesto dal difensore sospende la prescrizione, il rinvio dell’udienza dovuto ad un problema del Magistrato o del Tribunale non lo fa. Per cui, quando un processo si protrae a lungo ed il reato si prescrive dipende, quasi esclusivamente, dalla disorganizzazione della giustizia italiana e non da particolari escamotage del difensore.
Si conclude invitando il lettore a una riflessione: se i processi in Italia sono estremamente lunghi e i reati si prescrivono, è necessario intervenire in maniera decisa con una riforma della giustizia che punti ad una migliore organizzazione dei Tribunali, all’assunzione di personale, alla responsabilizzazione della Magistratura o abolire l’istituto della prescrizione?